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Come farà soldi BuzzFeed

Come ha spiegato magistralmente Bloomberg Businessweek poche settimane fa, BuzzFeed può essere in grado di rivoluzionare in chiave social e virale la pubblicità, offrendosi agli inserzionisti come la “testate” in grado di misurare i gusti del pubblico (e, in qualche misura, influenzarli) e di farli esplodere lungo le mille ramificazione dei social network. Parallelamente a questo business – nuovo e inesplorato – c’è la pubblicità “classica”, come le partnership e i post “sponsorizzati” da società esterne. A tal proposito, ecco una gallery dei più bei animali “ibridi” sponsorizzata nientepopodimenoché dalla Toyota, produttrice dell’automobile “ibrida” Prius. Una trovata geniale.

 

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Sei Twitter-dipendente?

Secondo la Boston University, Twitter sarebbe in grado di creare una dipendenza maggiore di quella di nicotina e alcol. Se volete sapere se anche voi siete dei tweetaholic, potete provare questo scherzoso test-infografica realizzato da OnlineSchools.com (via J. Romenesko).

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Il giornalismo ai tempi di Twitter e BuzzFeed

Christian Rocca, inviato del Sole 24 Ore, sta coprendo il caucus in Iowa e ha scritto un breve post sul suo blog Camillo riguardo il rapporto tra giornalismo, internet e Twitter.

L’unico vero, incontrasto, vincitore dei caucus dell’Iowa è Twitter. Qui a Des Moines, i giornalisti guardano solo twitter, si informano su twitter, discutono su twitter. E poi, sbuffando, tornano a scrivere quei fastidiosi articoli sui giornali del giorno dopo, pubblicati da chi gli passa la paga. Interessa solo twitter, fa notizia solo twitter, dà soddisfazione solo twitter.
(…) Ha vinto twitter, ma c’è qualcosa che non torna. Pensateci. Twitter è quel super organo di informazione che può contare sulle migliori firme americane e internazionali, sui migliori reporter americani e internazionali, sui migliori analisti americani e internazionali. Tutti questi scrivono gratis per il signor Twitter. Potrà continuare?

La questione è complicata e ancora informe – difficile fare pronostici senza risultare visionari o imbecilli – quindi quel “potrà continuare?” finale è il limite massimo oltre al quale possiamo sporgerci senza rischiare di precipitare o scivolare. Perché se è vero che i tweet stanno trasformando il giornalismo e l’informazione, è anche vero che i giornalisti sono pagati da quei giornali e siti di news per i quali scrivono pezzi sbuffando, dopo un’orgia di 140 caratteri. I giornalisti si divertono e rendono moltissimo sul social network ma continuano a dover rendere conto alle testate per cui lavorano – le quali, tra l’altro, beneficiano solo indirettamente del traffico web interno a Twitter.

Che succederà? Non possiamo dirlo ma qualcosa sta già succedendo: Ben Smith, perla di Politico e blogger che nel 2008 ha raccontato le elezioni Usa alzando l’asticella del giornalismo di qualche tacca, è ora a BuzzFeed, sito di LOL, WTF e gattini birichini. In pochi giorni il sito ha già beccato uno scoop nel caucus dell’Iowa. Prima di abbandonare Politico (per quanto non completamente – Smith manterrà una column settimanale), il giornalista aveva espresso i suoi dubbi e timori riguardo il blogging e il giornalismo-istantaneo ai tempi di Twitter. Nella sua intervista-sfogo con AdWeek, Smith spiegò come Twitter sia in grado di arrivare prima su tutto. E di arrivarci, paradossalmente, meglio, nonostante il limite invalicabile dei 140 caratteri. Particolare interessante: nell’articolo non ci sono riferimenti ai giornali cartacei (quelle cose fatte di notte, vendute alla mattina e che restano testardamente pietrificate per 24 ore): il discorso era tutto sull’online: siti, blog, social network (fra tutti, Twitter).

Qualcosa sta succedendo. Qualcosa di grande. Qualcosa che cambierà tutto. “Potrà continuare?” No. E di certo c’è solo questo.

P.S. Nel frattempo, imparate ad aspettarvi da BuzzFeed un qualche scoop (magari da Pulitzer), e a riconoscerlo in mezzo a quella giungla di lol virali. 

(Immagine via)

 

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L’ora del tweet

Qual è il momento migliore per twittare? Qual è l’ora in cui un cinguettio ha più possibilità di essere letto? Le 9 della mattina (orario Usa, East Coast). Bård Edlund, artista, ha realizzato un’infografica animata (qui) che mostra come Twitter cambia a seconda dell’ora e del Paese.

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Link di oggi: l’influenza di Twitter su Facebook e il giornalismo

A proposito della breve riflessione di ieri riguardo il caso dimissioni di Berlusconi-Franco Bechis-Twitter ecc., oggi la meravigliosa sezione Voices di AllThingsD propone due bei pezzi che cascano a fagiuolo con gli argomenti toccati ieri:

  • Facebook va alla grande, certo, ma sta perdendo parte della sua coolness. Ad approfittarne, Twitter.
    Guardian
  • Del perché i social media non stanno rovinando il giornalismo.
    Marshall Kirkpatrick

Il primo è da inserire nel ragionamento su Twitter, ovvero: dal tweet di Bechis al su e giù dello spread, una cosa incredibile, che Facebook non è in grado di fare. Il secondo è un bell’argomento per la questione giornalistica alla base dei fattacci di ieri (ancora Bechis, ma non solo).

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Obamabots

Ben Smith di POLITICO parla degli Obamabots, utenti Twitter pronti a rispondere a modo ai commentatori politici che criticano il presidente USA. Avversari preferiti: i giornalisti liberal e democratici che, specie recentemente, stanno criticando l’amministrazione di Obama.

Vedi anche: Sapresti riconoscere un tweet di un computer da uno di un umano?

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L’app per iPad di Facebook continua a latitare

Doveva essere uno degli ingredienti forti del f8 appena trascorso, l’evento con cui Facebook presenta annualmente le sue novità. Invece quel giorno hanno visto la luce nuovi profili, Timelines e tanto altro. Ma nessuna applicazione per iPad.

Che ne è stato dell’app che doveva rivoluzionare il concetto di social network mobile? E del team di decine di esperti al lavoro per creare un prodotto in grado di rimpiazzare l’imbarazzante Facebook app per iPhone? E dello spettro intercettato da Techcrunch a causa di un errore tecnico dell’azienda di Mark Zuckerberg?

Che sia svanito nel nulla è poco probabile. Può darsi che abbiano deciso di non presentarla all’f8 per non accumulare troppa carne al fuoco in una singola giornata. O forse il presunto gioiellino non è ancora pronto.

Una cosa è certa: Facebook non ha fretta di farsi mobile.

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Link di oggi

Prosegue il lento (ma nemmeno tanto) declino di Google +

Gli utenti ci postano sempre di meno, dice TechCrunch (almeno non sono l’unico a farlo).

Il rotolio delle palle di fieno

update

Attenzione: da oggi Plus è aperto a tutti. Le cose potrebbero cambiare, staremo a vedere.

Google sfida Flipboard

La Grande G sta preparando un lettore di news con cui combattere Flipoboard e soci (Zite, Pulse). Si chiamerà, scrive Techland, Propeller. Jared Newman ne parla dicendo una cosa che Gootenberg condivide appieno: queste app sono belle e tutto il resto, ma leggerci le news è dannatamente difficile. Ci abitueremo o è un problema di medium?

I hate to be a downer, but enough is enough. What I’ve discovered with these apps is that you spend too much time curating content and not enough time reading it. You’ve got to pick the sources and types of news that you like. You’ve got to create Twitter lists to filter the useful stuff from the junk. You’ve got to “Like” the articles you like so that the algorithms can learn what you like. And every time someone creates a new app, you’ve got to do all this self-curation all over again.

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Se l’11 settembre 2001 avessimo avuto Facebook e Twitter

Non sarebbe stato bello, secondo Cord Jefferson di Good magazine. Certo, avrebbe capillarizzato la copertura mediatica degli eventi ma quante bugie, quante foax sarebbe nate – e quanto poco avrebbe messo a diffondersi?

Il pezzo si basa sul ricordo di quel giorno (suo padre lo sveglio: era ubriaco dalla sera prima – ah, il college!), che Jefferson non passò davanti al computer, come avrebbe probabilmente fatto se il web fosse stato sviluppato com’è oggi.

da Good.is

Invece niente Facebook, niente Twitter e niente Youtube. E niente siti di news, visto che allora erano poco sviluppati – una cosa di cui l’autore si dispiace. Solo le edizioni straordinarie dei telegiornali.
Un gap temporal-tecnologico che ha fatto la differenza, visto che nel malaugurato caso avvenisse un 9/11 oggi, l’hashtag #newyorkattacks si diffonderebbe in un secondo. E la diversa copertura mediatica modificherebbe sicuramente modificato il modo con cui affronteremmo la malaugurata tragedia.

Se sia stato meglio o peggio non avere i social network nel 2001, crediamo, non è possibile dirlo. Solo è notevole segnalare come in dieci anni il mondo sia cambiato così tanto: non solo per il crollo delle Twin towers ma anche per lo sviluppo incredibile del web.

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I miraggi di Bauman

Il filosofo e sociologo Zygmunt Bauman in un’intervista all’inserto librario “Tuttolibri” della Stampa ha detto:

Qualunque cosa tu faccia off line ha delle conseguenze, mentre le rivoluzioni via Internet hanno un inizio rapido e una fine altrettanto rapida.

L’intervista all’esimio ha fatto il giro della Rete (qui ripresa da quel finone di D’Agostino) e si basa su una fallacia vecchia e ormai consunta: l’idea che la Primavera araba e le rivolte recenti siano state causate dai social network. Una balla: le rivoluzioni e le rivolte nascono per gli stessi motivi per cui nascevano 300 anni fa (povertà, fame, sete). Solo è cambiato il modo di vivere: c’è – come dice Andrea Malaguti, autore dell’intervista allo studioso – “il mondo online e il mondo offline”. Ovvio che per cambiare l’uno ci si serva dell’altro.

È ora che si chiarisca che l’aumento folle del prezzo del cibo di quest’anno e la Primavera araba non sono scollegati: sono in un rapporto di causa-effetto molto più stretto di quello che si pensa (oggi ne ha scritto anche Fast Company).

Twitter e Facebook sono i due medium con cui ci si sta organizzando, tutto qui (si fa per dire – le conseguenze di questo cambiamento sono ovviamente massicce). Non li usiamo per fare le rivolte: le usiamo per vivere una componente sempre più grande della nostra vita. La fame, la sete, la rabbia per le ingiustizie sociale e politiche le viviamo nel nostro cervello; e presto finiscono in Rete.

Dire che senza social network Hosni Mubarak sarebbe ancora faraone d’Egitto è un errore grave, una balla. Lo prevedeva Malcolm Gladwell nell’ottobre del 2010; noi, più modestamente, qualche mese fa.

Non si fa una rivoluzione con un like (mi dispiace, 40% dei blogger italiani). E nemmeno con un hashtag. Anzi, la confusione social può intralciare il percorso di una rivolta, come ha spiegato il professore di Yale Navid Hassanpour  al New York Times appena due giorni fa. (qui la sua ricerca – a pagamento)

Quanto alla durata delle rivoluzioni “social” di cui Bauman parla, non ci esponiamo. Se la Libia dei ribelli fallirà nel suo percorso verso la democrazia, sarà per colpa dei ribelli, di noi esseri umani. No, non ci pare il caso scaricare il barile su dei stupidi, innocenti server.

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